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Crescita dimensionale delle imprese: opportunità o vincolo per rimanere competitive?

A cura di Francesco Gatto*

Il tema della crescita per linee esterne e della gestione complessiva dei processi di aggregazione è al centro di un importante Progetto finanziato dalla Regione Veneto, dal titolo “Sviluppo dimensionale e crescita per linee esterne: percorso executive in strategia & finanza”.
Il Progetto, che rientra nell’ambito delle iniziative di “Formazione continua” della Regione Veneto, finalizzate all’innovazione e allo sviluppo dell’impresa veneta (Allegato B Dgr. N. 784 del 14/05/2015) intende sviluppare, attraverso diverse metodologie (focus group, workshop, percorsi formativi, project work, visite aziendali, ecc…) le competenze tecnico-specialistiche e manageriali per la gestione dei possibili percorsi di crescita per linee esterne (piani strategici, operazioni straordinarie, metodologie di valutazione aziendale, capitali per lo sviluppo).

Il tema della crescita dimensionale delle imprese è quanto mai attuale ed oggetto di confronto e discussione. Nell’attuale contesto economico, infatti, l’intensità della competizione (legata anche al processo di globalizzazione su scala internazionale), la necessità di sfruttare economie di scala, la rapidità e la complessità del progresso tecnologico, con il conseguente accorciamento del ciclo di vita dei prodotti, rende inevitabile per le imprese porsi un obiettivo di “crescita” intesa sia in senso quantitativo (crescita per linee esterne attraverso progetti di acquisizioni aziendali) che qualitativo (sviluppo delle competenze manageriali e crescita del capitale umano).
Crescere significa rimanere competitivi in un mercato sempre più difficile e in trasformazione, significa disporre di adeguate competenze e risorse, sia umane che finanziarie.

Uno degli aspetti più critici nelle piccole e medie imprese è legato alla mancanza di figure manageriali preparate, in quanto gli investimenti in capitale umano sono ritenuti a volte troppo onerosi rispetto alle dimensioni aziendali; persistono, inoltre, problemi di “cultura” aziendale spesso resistente al cambiamento. Una scarsa attenzione verso le figure manageriali può rappresentare un limite decisivo alla possibilità dell’impresa di svilupparsi e di sfruttare eventuali opportunità esterne favorevoli legate ad aggregazioni e acquisizioni aziendali.
La mancanza di strategie ben delineate fa sì che le azioni siano decise sulla base di logiche di breve termine senza una visione prospettica di medio lungo periodo. Ovviamente esistono delle eccezioni, anche significative, di imprese che sono state capaci di evolversi operando una rilevante responsabilizzazione di figure manageriali, un valido assetto organizzativo e un adeguato piano strategico.

Per approfondire il ragionamento in tema di definizione del piano strategico finalizzato alla crescita e di gestione di un processo di acquisizione ne parliamo con Cristian Iosio, docente presso l’Area Finance del CUOA e attualmente Head of Strategic Planning for Electrolux Professional SpA

D. Quali sono, in base alla sua esperienza, gli aspetti vincenti nella definizione di un corretto piano strategico finalizzato allo sviluppo dimensionale?
R. Un piano strategico di successo richiede una comprensione dell’ecosistema in cui un’impresa opera e quindi un’analisi approfondita delle dinamiche settoriali e dei principali concorrenti. Capire il mondo circostante consentirà all’impresa di valutare il suo posizionamento corrente e definire un posizionamento obiettivo. Un piano di successo sarà articolato in modo chiaro con una mission, una vision e degli obiettivi concreti condivisibili e misurabili da parte di tutti gli stakeholders. Il piano richiederà strumenti di check and balance affinché, su base regolare, possa essere discusso e in qualche modo corretto in caso di deviazioni. La strutturazione di un piano strategico di questa natura consentirà anche di capire e valutare la bontà delle opzioni strategiche di crescita e le alternative concrete a disposizione tra sviluppo organico e acquisitivo.

D. Quali sono, in base alla sua esperienza, gli errori più comuni nella definizione di un processo di acquisizione aziendale?
R. Le operazioni di acquisizione spesso disattendono le aspettative. Non generano il valore indicato nei piani d’investimento e talvolta generano sinergie di ricavo e costo inferiori rispetto ai piani utilizzati per definire un payback time…..come mai? Le acquisizioni sono di per sé operazioni complesse e la loro probabilità di successo è funzione, in primis, della dimensione, complessità del business, settore di appartenenza, giurisdizione, cultura ecc.; in secundis del processo di integrazione. Gli errori più comuni sono legati alla sottovalutazione delle criticità emerse in due diligence e alla capacità di intervenire modulando strumenti di governance, valutativi e afferenti la strutturazione delle operazioni. Molti dei problemi sono poi legati alla fase di integrazione, troppo spesso sottovalutata e priva di un chiaro disegno strategico che dia una rappresentazione al gruppo di lavoro dell’obiettivo e dei passi per raggiungerlo. La definizione di una leadership chiara con un mandato reale strategico ed esecutivo sembra essere uno tra i problemi più comuni di questa fase.

D. Quanto è importante definire correttamente un processo di change management nei processi di acquisizione aziendale?
R. L’acquisizione di un’azienda è nella maggior parte dei casi un evento di discontinuità molto importante durante il quale l’intensità dei cambiamenti che possono influenzare i processi aziendali sono strettamente legati al modello di acquisizione e al processo d’integrazione utilizzati. Come ogni progetto complesso, disciplina, chiarezza di intenti e leadership sono gli ingredienti chiave per riuscire a guidare l’organizzazione dallo status quo ad una situazione desiderata che sia sostenibile e rifletta i valori societari. La definizione corretta del processo ma anche l’identificazione di tutti quei fattori abilitanti necessari affinché esso venga implementato sono due elementi fondamentali ed imprescindibili.
Oltre alla visione strategica ed organizzativa, affrontare un percorso di crescita implica anche saper pianificare investimenti e mercati. Tutto ciò vuol dire patrimonializzare l’azienda, anche valutando l’opzione del private equity, quale presupposto per una sostenibilità nel tempo del proprio business.
Il sistema delle imprese si trova ad affrontare un dilemma di fondo, acuito in questo periodo dalla maggiore selettività posta dal sistema bancario: è possibile finanziare la crescita solo con l’accesso al credito o anche, e in che misura, con il ricorso al capitale di rischio? L’opzione del private equity può quindi facilitare un percorso di crescita attraverso un apporto sia di capitali, sia di competenze e professionalità per gestire tali fasi di discontinuità nella vita dell’impresa. Si tratta evidentemente di un’opzione che potrebbe avere un forte sviluppo nel tessuto industriale del Nordest, caratterizzato comìè noto dalla significativa presenza di PMI con una forte tradizione imprenditoriale. Spesso si tratta di realtà con un chiaro vantaggio competitivo in termini di prodotto, ma che non hanno le risorse finanziarie né le caratteristiche dimensionali per poter competere sui mercati internazionali. Si tratta di aziende che si trovano ad un bivio importante. Da un lato accedere al mercato dei capitali per attrarre le risorse necessarie per continuare ad investire in R&D e dotarsi di una struttura manageriale capace di portare l’azienda oltre i confini nazionali; dall’altro chiudersi in sé stesse riducendo progressivamente la propria posizione competitiva. In questi casi, l’ingresso nel capitale di un fondo di Private Equity potrebbe consentire all’azienda di intraprendere un piano di sviluppo che altrimenti sarebbe troppo impegnativo e oneroso.

*Responsabile CUOA Finance