General Management Lean Management

The Japanese Way: una cultura piena di contraddizioni

di Andrea Furlan*

Durante la settimana trascorsa in Giappone, nell’ambito del Lean Japan Tour organizzato dal CUOA (in partnership con Auxiell, MAEMA e Hirayama), abbiamo visitato alcune tra le imprese più rappresentative della cultura di management nipponica. Sette visite aziendali e un giorno di training con sensei ex-manager Toyota.
Un programma pieno, intenso, intriso di significati e lezioni da portare a casa e applicare alle nostre aziende e organizzazioni.
Si inizia il lunedì mattina di buonora con un workshop al Prince Hotel, dove una manager della famosa catena di Hotel fa vivere ai partecipanti il significato più profondo della (spesso abusata) espressione “soddisfazione del cliente”. Il giorno seguente Toyota, con la visita al “mitico” Motomachi Plant, dove si vedono i migliori esempi al mondo di applicazione dei due pilastri del Toyota Production System (TPS): JIT e Jidoka. Poi la visita a Tokay Shiney, operante nell’elettronica, dove il presidente spiega (e fa toccare con mano) la filosofia dell’azienda, che ruota attorno alla disciplina e all’apprendimento generato dalla pulizia (management by cleaning). La visita a un impianto della Mazka, leader mondiale nella produzione di centri di lavoro e macchine utensili, dove 5s e innovazione di prodotto convivono e rappresentano il cuore pulsante dell’azienda. Le stampanti (e non solo) di uno stabilimento della Ricoh, in cui la produzione a flusso si sposa con un’attenzione spasmodica alla qualità di prodotto e processo. Lo stabilimento “Sony recycling center”, dove vengono applicati i principi della Lean e del miglioramento continuo a una linea che lavora al contrario: parte dai prodotti finiti (da frigoriferi a pc) e produce materie prime. Infine, uno stabilimento di Omron, nel quale grazie alla progettazione ergonomica del workplace si rende efficiente una fabbrica che impiega l’80% di lavoratori disabili. Il programma si completa con una intensa giornata trascorsa con ex-sensei della Toyota formati all’OMCD (Toyota’s Operations Management Consulting Division) sotto la supervisione di Taiichi Ono. I sensei trasmettono lo spirito originale del TPS, in cui la cultura della caccia agli sprechi si fonda indissolubilmente con la visione della persona al centro del sistema di lavoro.

Le aziende visitate sono molto diverse e non applicano gli stessi strumenti, ma solo quelli funzionali alle loro strategie. Tuttavia la sensazione che si ha visitandole è che condividano uno stesso approccio, una simile filosofia che non è affatto facile rendere a parole. Normalmente non riusciamo a spiegare quello che per noi è contro-intuitivo, illogico, contradittorio. E se la cultura delle migliori imprese Gapponesi fosse ai nostri occhi contradditoria? Come fondere lo yin con lo yang, un’operazione che esce dai nostri abituali schemi di ragionamento.

Mi affido a un articolo scritto da Hirotaka Takeuchi, Emi Osono, and Norihiko Shimizu (pubblicato su Harvard Business Reivew nel 2008) per cercare di descrivere queste contraddizioni. Primo, piccoli e continui miglioramenti, ma anche innovazioni radicali. Pensiamo a Toyota che ha nel kaizen (fatto di piccoli miglioramenti frutto dell’applicazione del metodo scientifico alla risoluzione dei problemi) uno dei suoi tratti distintivi. Eppure Toyota è anche capace di grandi innovazioni: è stata la prima a vendere una macchina ibrida (Prius) e la prima a lanciare un’auto prodotta in serie ad idrogeno (la Miray).

Secondo, ricercare la stabilità, ma essere sempre ossessionati dal cambiamento. Tutte le aziende visitate registrano una crescita costante e sono molto stabili nei processi e nei comportamenti. Eppure il pensiero assillante dei manager è “cosa si può fare meglio?”, “come si può cambiare?”. E chi deve guidare il cambiamento è ovviamente il cliente. La visione di Prince Hotel è sintetizzata nella parola omotenashi, ossia la cultura dell’ospitalità, del prendersi cura del cliente, di agire prima che il cliente chieda. Lo staff si allena costantemente al Kikubari (kubari-diffondere, ki-spirito, attenzione) ossia ad essere costantemente vigile ai bisogni del cliente. Il cliente viene visto come parte della comunità, della famiglia. La lamentela del cliente non è mai fonte di irritazione, ma opportunità di miglioramento. Pensiamo invece a quanto sia diversa la nostra cultura individualistica, che interpreta il cliente come “esterno”, come “altro”, come “fonte” di denaro.

Terzo, cultura frugale accanto a grandi investimenti. Tutte le imprese sono attente al centesimo: “si devono spegnere sempre le luci durante la pausa pranzo!”. Eppure tutte investono pesantemente nella formazione delle persone. Una formazione molto pratica che richiede molto coaching individuale e, più che soldi, molto tempo dei capi (notoriamente la risorsa più scarsa in azienda).

Quarto, stretta gerarchia, ma anche diritto/dovere di contraddire il capo. I bravi capi sono autorevoli (e alle volte autoritari) ma, udite a udite, anche umili e aperti alle critiche dei propri dipendenti (quanti in Italia lo sono?). È dovere del lavoratore avanzare delle critiche ai propri capi, perché così facendo gli si da l’opportunità di migliorare.

Per decriptare la cultura manageriale delle migliori imprese giapponesi (e forse delle migliori imprese tout court) dobbiamo capire queste (e altre) contraddizioni, introdurle nelle aziende e imparare a gestirle. Diversi studi di human cognition mostrano che quando le persone sono alle prese con obbiettivi in apparenza contradditori imparano a trascendere le differenze e a trovare le soluzioni più efficaci. Le aziende che sviluppano questa capacità (molto spesso definita ambidexterity nella letteratura organizzativa) mettono al centro del sistema di management le persone e le loro capacità di problem solving. Incidentalmente sono anche le aziende che, nel lungo periodo, guadagnano di più!

*Referente scientifico Lean Center CUOA