Finanza d'Impresa

Gli obblighi prescritti da MIFID: in che misura gli scenari probabilistici potrebbero contribuire all’assolvimento degli obblighi

Emilio Girino *

IMG_1222Il ridisegnato impianto della valutazione di adeguatezza, costruito dagli artt. 39-42 del Reg. 16190, viene ora riportato sul banco di prova dagli Orientamenti su alcuni aspetti dei requisiti di adeguatezza della direttiva Mifid, emanati dall’Esma ed entrati in vigore dal 22 dicembre 2012.

Il documento ha un contenuto alquanto sorprendente. Scorrendolo, vi si rinvengono proposizioni, che, a prescindere dalla forza precettiva, di per sé flebile, di una carta di orientamento, cioè di un’interpretazione –  appaiono del tutto inutili, se non per quelle parti in cui finiscono col confessare il reiterato fallimento di quelle che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbero dovuto essere le disposizioni riformatrici di un sistema per il resto ipocrita, imbelle e asservito a logiche prettamente lobbistiche.

Meno stupefacenti, ma indiscutibilmente più inquietanti, sono invece talune proposizioni che, se per un verso inducono a ritenere che l’applicazione in concreto della disciplina lasci alquanto a desiderare.

Tre in particolare le indicazioni atte a suscitare una siffatta allarmata perplessità:

a)      il meticoloso richiamo ai principi del KYM (know your merchandise) (§§ 24-28);

b)      la rammentata necessità che i servizi di consulenza e gestione “tengano conto di un  adeguato livello di diversificazione del rischio” (§ 60.a);

c)      la cautela nell’affidarsi all’autovalutazione del cliente (§§ 41-46).

Ma è la terza indicazione a fornire una precisa misura della sostanziale disapplicazione delle disposizioni in tema di valutazione di adeguatezza. E sul punto lo stesso linguaggio dell’autorità tradisce un evidente imbarazzo nel biasimare, sia pur in modo molto edulcorato, quella che parrebbe essere una prassi diffusa, ossia l’espletamento del processo di apprezzamento attraverso l’autovalutazione da parte del cliente. Sul punto l’Esma ha cura di rimarcare che gli intermediari non dovrebbero fare “indebitamente affidamento sulle autovalutazioni dei clienti” circa le loro conoscenze ed esperienze e la loro situazione finanziaria (§ 41). Principio che poi viene declinato attraverso raccomandazioni più specifiche che, lette alla rovescia, sembrano delineare il reale modello comportamentale in essere nei mercati.

Si avverte, dal cumulo di queste indicazioni, la netta sensazione, spesso verificabile in prassi come certezza, che la profilazione del cliente tenda ad essere pilotata dallo stesso intermediario, spostandosi così il baricentro di responsabilità dal secondo al primo e con ciò producendosi l’effetto esattamente opposto a quello cui la direttiva mirava. Le disposizioni in tema di adeguatezza avrebbero dovuto ovviare al sopradetto risultato di meccanica autoresponsabilizzazione del cliente attuata grazie al disbrigo del burocratico incombente del consenso ed affidare al soggetto professionale, asimmetricamente avvantaggiato sul piano della conoscenza, il compito di supplire alla tendenziale incapacità autovalutativa del cliente: le indicazioni dell’Esma rivelano invece una realtà di segno inverso, in cui nuovamente l’intermediario tende ad onerare il cliente di un compito e di una responsabilità che non appartengono al secondo bensì al primo.

La soluzione del problema sta altrove.

Può darsi per assodato che, se da un lato l’investitore, quali che ne siano le ragioni, bias cognitivi o pecuniaria ingordigia, sia incline a sottovalutare il rischio reale di un investimento e, dall’altro, l’intermediario spesso non disdegni tale attitudine e talvolta non esiti a incoraggiarla, non è men vero che le norme positive sono estremamente chiare nell’intento di prevenire ogni distorsione, affidando alla parte professionale siffatto compito, indubbiamente ingrato, di profilassi.

Una piena, costante, disinteressata e accudente azione protettiva del cliente ad opera dell’intermediario non sia oggettivamente conseguibile attraverso un pur sofisticato “approccio investigativo” e che un simile obbligo, in un modo o nell’altro, verrà comunque aggirato per quanto solidi possano essere i presidi coi quali la Legge ne assista l’assolvimento.

Se l’obiettivo di tutela della parte “debole” è certamente coonestabile in ambito finanziario in ragione dell’indiscutibile rilievo sociale del risparmio, diviene invece del tutto irrealistico supporre che lo stesso possa conseguirsi affidando siffatta tutela alla parte “forte”.

Due, in tal senso, le linee sulle quali il legislatore potrebbe agire.

La prima linea consiste nell’introduzione di un secco divieto di vendita di determinati prodotti a determinate categorie di investitori. Dovrebbe dunque proibirsi, ad esempio, il collocamento di obbligazioni strutturate presso piccoli investitori (per tale intendendosi coloro che dispongano di un complessivo capitale finanziario non superiore ad una data e predefinita soglia: 1 milione di euro ad esempio in luogo dell’irrealistico parametro di 500.000 previsto dalla disciplina vigente al fine del test di professionalità) e, oltre tali limiti, introdurre soglie percentuali massime all’investimento.

La logica del “vietato ai minori” non è affatto scandalizzante o reprimente, dato che la stessa già trova applicazione per i cc.dd. fondi riservati o per la reimmissione sul mercato retail di prodotti che abbiano costituito oggetto di una preventiva offerta al pubblico esente dall’obbligo di prospetto (cfr. art. 100/bis comma 3° t.u.f.). Dunque, si tratta semplicemente di affinare quel principio e di conferirgli un più vasto raggio di applicazione. Buona parte dei problemi già sarebbero per questa via risolti.

La seconda linea è ancor più semplice da perseguire, anche perché l’ordinamento già la persegue. Il riferimento è qui rivolto all’impiego dei cc.dd. scenari probabilistici, ossia a quelle rappresentazioni che, basandosi su metodi matematici accreditati dalla scienza probabilistica, consentono di stimare e, soprattutto di quantificare il grado di rischio dell’investimento attraverso l’esposizione, in forma sintetica e del tutto comprensibile  anche al meno attento degli investitori, delle differenti probabilità che un dato investimento generi profitti o perdite.

Se all’investitore si rappresenta in una tabella riassuntiva che, ad esempio, il rendimento negativo sarà pari al 25%, quello neutro al 70%, quello positivo al 5%, l’investitore potrà avvedersi che l’investimento gli darà 25 probabilità su 100 di perdere e 75 di stare al sicuro e quindi, in termini più “raffinati”, 1 probabilità su 4 di perdere, 2,8 su 4 di riottenere il mero capitale e 0,2 su 4 di guadagnare. Se poi, come la tecnica costruttiva dello scenario probabilistico prevede, si andrà anche a quantificare il c.d. valore centrale del singolo scenario, ossia una media del livello di profitto o di perdita che al verificarsi di quel dato scenario il prodotto potrebbe generare, l’informazione acquisirà una portata decisamente più nitida e porrà tanto l’investitore quanto l’intermediario nel reciproco imbarazzo di, rispettivamente, chiedere o proporre quel dato prodotto ove la prospettiva additi un rischio incompatibile con il profilo e gli obiettivi di investimento del cliente.

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* Avvocato, STUDIO GHIDINI, GIRINO E ASSOCIATI