Business School Imprenditorialità e Governance Strategia

Autonomia e cooperazione

di Alberto F. De Toni*

Ogni giorno la complessità della competizione aumenta. Ma come farci fronte?
Una prima grande scuola manageriale – quella classica di Frederick W. Taylor e di Henry Fayol – denominata Scientific Management ritiene che struttura, processi e sistemi siano fondamentali nel determinare le prestazioni dell’organizzazione. In particolare procedure e sistemi di misurazione delle prestazioni (con l’attivazione dei famosi Key Performance Indicator – KPI) sono fondamentali per assicurarsi che le persone – considerate come il fattore meno affidabile dell’organizzazione –  agiscano come prescritto. Questo approccio – definibile come hard – all’aumentare della complessità del contesto competitivo suggerisce di aggiungere nuove strutture, nuovi processi e nuovi sistemi per ottenere l’amento richiesto delle prestazioni.  Ecco quindi l’introduzione di nuove unità e di nuovi responsabili di qualità, customer satisfaction, sicurezza, compliance e così via, in un crescendo di compiti, unità, procedure ecc. che in realtà aumentano la difficoltà della gestione interna in una spirale viziosa.

Una seconda grande scuola manageriale – nata dagli studi di Elton Mayo e nota come Movimento delle relazioni umane – considera l’organizzazione come un insieme di relazioni interpersonali e di sentimenti che le regolano. Team building, eventi di networking, seminari fuori sede ecc. sono strumenti tipici di un approccio – definibile come soft – che ritiene che le prestazioni positive di un’organizzazione siano il risultato di buone relazioni interpersonali. Il modo di agire di ogni individuo è determinato dalle sue caratteristiche personali, in primis psicologiche e di atteggiamento. In altre parole per cambiare il comportamento sul lavoro basta cambiare l’atteggiamento delle persone (o le persone). A prima vista l’approccio soft sembra essere opposto a quello hard, ma non è così.

Come ci spiegano Yves Morieux e Peter Tollman in Smart Simplicity, sia nel management scientifico che in quello umanistico ritroviamo una visione pavloviana del comportamento, concepito cioè come un riflesso condizionato.

Nell’approccio hard lo stimolo giusto per garantire l’allineamento del comportamento degli individui è l’incentivo economico; nell’approccio soft sono gli stimoli emotivi esercitati da manager dotati di leadership appropriata.

In entrambi i casi si tenta di influenzare l’individuo con stimoli di natura finanziaria od emotiva; in nessuno dei due casi ci si pone il problema di valorizzare al meglio l’intelligenza dell’individuo. La dinamica generata da questi due approcci – che spesso coesistono nelle organizzazioni – è presto descritta: l’approccio hard genera nuovi ostacoli agli individui e contribuisce a generare insoddisfazione e demotivazione degli stessi. L’approccio soft interviene per limitare il loro sentirsi inutili e inefficaci ed aiutare le persone a sentirsi e a lavorare meglio. I manager ritengono di aver risolto i problemi, ma così non è. Paradossalmente la responsabilità per la demotivazione ricade sulle persone stesse. Se i problemi persistono (e accade sempre), la colpa è delle persone il cui atteggiamento è negativo o sbagliato. In un parola non capiscono . . .

E allora? Come se ne esce?

Per affrontare la complessità dobbiamo puntare sull’intelligenza distribuita delle persone e attribuire loro un certo grado di autonomia.

Le persone non sono il punto debole delle organizzazioni come presuppone l’approccio hard, ma rappresentano il vero punto di forza. Sono le persone che fanno la differenza. Nessuna nuova struttura, procedura o sistema sarà sufficiente a prevedere tutti i problemi e sarà capace di aiutare le persone a trovare soluzioni e a valutare opportunità. Solo collaboratori autonomi potranno esprimere giudizi, negoziare compromessi, trovare soluzioni creative, interpretare le regole rispettandone lo spirito e non applicandole alla lettera.

Di fronte alla complessità nessuno possiede tutte le risposte. Per questo è necessario che le persone utilizzino la loro intelligenza e autonomia per cooperare.

Le parole chiave diventano autonomia e cooperazione.

L’autonomia libera la potenzialità degli individui e la cooperazione crea sinergie moltiplicative a vantaggio dell’efficacia del gruppo. L’approccio hard limita l’autonomia considerata rischiosa e minimizza l’esigenza di cooperazione definendo precisamente compiti e procedure. Mentre l’approccio soft considera le azioni e le decisioni degli individui conseguenze in primis di esigenze psicologiche ed emotive e non ad esempio dall’evidenza dei vantaggi della cooperazione anche per i singoli. Autonomia e cooperazione: ecco il mix per navigare nella complessità.

*Direttore scientifico CUOA Business School

Fonte: Il Friuli Business