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La gestione della complessità. Come imparare a vivere ogni giorno (e bene) sull’orlo del caos.

di Alberto Felice De Toni*

Le recenti emergenze ci dimostrano che viviamo in un mondo sempre più complesso e imprevedibile. Ma si può gestire la complessità?
Alberto De Toni, Direttore scientifico CUOA Business School, spiega come si può imparare a surfare sull’orlo del caos.

Dieci riflessioni da condividere.

Prima riflessione: la conoscenza.
Nel film Le crociate del ‘95 di Ridley Scott, Baliano a capo dell’esercito cristiano – appena conclusa la negoziazione per la consegna di Gerusalemme ai mussulmani in cambio di un salvacondotto per tutti i cristiani asserragliati a difesa della città assediata – chiede a Salah-al Din: Quanto vale Gerusalemme? Salah-al Din gli risponde: Niente. E dopo pochi attimi aggiunge: Tutto. Se uno di voi mi chiedesse: Quanto vale la conoscenza? risponderei: Niente. Tutto. La conoscenza di una organizzazione non vale niente se non è fonte di valore. Vale tutto se lo diventa. Parafrasando Aristotele – un pulcino è un gallo in potenza, un gallo è un pulcino in atto – possiamo affermare che la conoscenza è valore in potenza, il valore è conoscenza in atto. La conoscenza è una risorsa economica, al pari di terra, lavoro e capitale. Ma ha una natura diversa dalle altre risorse, una natura ribelle: l’essere moltiplicativa, ovvero con l’impiego non si consuma, ma si moltiplica. L’economia – per antonomasia la scienza della scarsità – è chiamata quindi ad occuparsi, in via non più procrastinabile, della risorsa non scarsa per eccellenza: la conoscenza. La scienza della scarsità deve diventare la scienza della moltiplicabilità.
Seconda riflessione: i saperi.
Non esiste una gerarchia delle discipline. Non esiste un ordine dei saperi con la superiorità delle discipline umanistiche su quelle scientifiche, con la filosofia all’apice dell’intera piramide e con la fisica sopra le altre discipline scientifiche e tecnologiche. Questa concezione ha egemonizzato per molto tempo il nostro sistema educativo e di conseguenza ha accentuato la dicotomia tra cultura umanistica e cultura scientifica. Per studiare le particelle elementari (protoni ed elettroni) serve la fisica. Per studiare ciò che emerge dalle particelle elementari (atomi e molecole) serve la chimica. Per studiare ciò che emerge dalle molecole (le bio-molecole) serve la biologia. Per studiare ciò che emerge dalle biomolecole (tessuti e organi) serve la medicina. Per studiare ciò che emerge dai tessuti cerebrali (la coscienza individuale) serve la psicologia, la pedagogia, l’antropologia. Per studiare ciò che emerge dalla coscienza individuale (la coscienza collettiva sociale) serve la sociologia, la filosofia, l’economia ecc. Le discipline sono interconnesse in una logica di emergenza dal basso, per cui dove termina la comprensione di una disciplina inizia la comprensione di un’altra. Non sono posizionate secondo una piramide gerarchica, ma si presentano come un sistema a rete, con nodi e relazioni multiple.
Terza riflessione: il cambiamento.
Come dice Schopenhauer: Solo il cambiamento è eterno, perpetuo, immortale. Tutto cambia a grande velocità. Nell’impetuoso fiume del cambiamento, se pensiamo di essere in un grande battello a vapore e di poter risalire il corso dell’acqua ci inganniamo. Siamo piuttosto in una piccola canoa che discende la corrente tumultuosa. Se osserviamo attentamente il flusso dell’acqua, con la sensazione di farne parte, sapendo che varia di continuo e che conduce sempre a nuove complessità, ogni tanto possiamo affondare un remo nell’acqua e spingerci da un vortice all’altro. Sogno, visione e mito sono i motori del cambiamento in quanto sono l’immaginario rispettivamente del singolo, del gruppo e del sociale. Ciascuno di noi sogna di fare qualcosa nella vita: il sogno è il motore del cambiamento della persona. Dal mito antico della terra promessa fino a quello più recente della frontiera americana, i miti guidano e accompagnano da sempre i grandi cambiamenti sociali. E le visioni guidano, su scala minore, i cambiamenti delle organizzazioni. Dobbiamo accendere questi motori del cambiamento, consapevoli che la presenza di poli attrattori possono favorirne l’attuazione. Il cambiamento porta da uno stato di ordine ad uno nuovo stato ordine attraversando uno stato di disordine: il disordine è necessario per creare nuovo ordine. L’orlo del caos è un posto rischioso da abitare. Non è ordine e non è disordine. È tra ordine e disordine. Troppo ordine: morte per fossilizzazione. Troppo disordine: morte per disintegrazione. La vita è all’orlo del caos. Bisogna stare sulla cresta dell’onda: a monte dell’onda c’è grande stasi; a valle dell’onda c’è grande caos; sulla cresta dell’onda c’è il punto di massima energia. E’ lì infatti che si mettono i surfisti. Per continuare a vivere dobbiamo surfare sull’orlo del caos in una realtà in continuo mutamento.
Quarta riflessione: l’innovazione.
Vi propongo tre concetti. Primo: l’innovazione è una disobbedienza andata a buon fine. La storia ce lo insegna. Un esempio eclatante di disobbedienza ai paradigmi esistenti è quello di Copernico che disobbedisce a Tolomeo. Fu l’osservazione galileiana, grazie al cannocchiale a fornire il primo riscontro empirico delle intuizioni copernicane: Copernico intuisce e Galileo dimostra. La rottura del paradigma è rischiosa. Ne sa qualcosa Galileo che viene processato e costretto all’abiura. Allora è meglio non innovare? Impariamo da Galileo: non domandiamo permesso. Secondo concetto: l’innovazione nasce in periferia, lontano dal dominant design che occupa sistematicamente il centro. Le opportunità in periferia sono maggiori, c’è più libertà intellettuale e si corrono rischi minori nel mettere in discussione il modello dominante. Terzo concetto: l’innovazione non ha una natura, ha una storia. E’ la storia degli uomini che la realizzano. Sono le persone che fanno la differenza.
Quinta riflessione: la sostenibilità.
La sostenibilità è uno degli obiettivi che come umanità siamo chiamati a perseguire. Stiamo consumando tutte le risorse del pianeta. La sfida è quella di ridurre il consumo di energia, di territorio (che provoca l’estinzione delle altre specie animali), di materie prime, ecc. Anche nelle fabbriche la richiesta è quella di essere più efficienti. I nuovi modelli di organizzazione industriale – che vanno sotto il nome di produzione snella – comportano di produrre con meno materiali, meno scorte e meno ore di manodopera. Ecco quindi la continua lotta – nella logica del miglioramento continuo – alle ridondanze di natura fisica. Ma questa lotta alle ridondanze di natura tangibile si realizza con un’altra ridondanza: quella di natura intangibile. Fatta di persone capaci non solo di attività esecutive, ma anche di programmazione, controllo, manutenzione, mutuo adattamento. In una parola una ridondanza funzionale dei lavoratori, le cui capacità polivalenti si ottengono con investimenti in formazione, comunicazione e informazione diffusa, nella creazione di contesti dove il capitale cognitivo e il capitale relazionale alimentano quello organizzativo. Il maggiore costo nel breve periodo è più che compensato dai vantaggi di lungo periodo in termini di robustezza e resilienza dell’organizzazione. In sintesi: per essere snelli sul piano tangibile bisogna essere ridondanti sul piano intangibile. Per contrapporsi ad una ridondanza delle risorse materiali che inducono un consumo non sostenibile di energia, territorio, materie prime, ecc. abbiamo bisogno di ridondanza intangibile di natura cognitiva, funzionale, informativa, relazionale. È il trade-off delle ridondanze. Ed ecco che i ruoli dell’education (scuola e università) e del lifelonglearning sono fondamentali. Si scrive ridondanza intangibile, si legge sostenibilità di lungo periodo.
Sesta riflessione: merito e appartenenza.
Oggi ci si lamenta che nel nostro Paese il merito è troppo assente nelle progressioni di carriera. E a fare la parte del leone è l’appartenenza a gruppi, lobby, partiti ecc. Ma a ben guardare abbiamo bisogno sia del merito che dell’appartenenza. Per spiegare questo mi aiuterò utilizzando il concetto di codice paterno e materno. I professionisti che si occupano della terapia della famiglia hanno da tempo identificato nell’equilibrio tra codice paterno e materno il segreto della crescita positiva dei bambini. Il codice materno implica di amare il bambino indipendentemente dai risultati raggiunti. Solo in questo modo il bambino matura la convinzione di essere amato per quello che è e questo lo consolida nel suo essere persona con i propri limiti. Il codice paterno implica invece di premiare il bambino in funzione dei risultati raggiunti. Questo incentiva il bambino a continuare nelle azioni intraprese che gli consentono di impegnarsi efficacemente. L’equilibrio dinamico da ottenere è tra invarianza ai risultati (codice materno) e attenzione ai risultati (codice paterno). Se uno dei due codici prevale sull’altro si ottiene una deriva negativa nella maturazione del bambino. Codice paterno e materno sono spesso interpretati a ruoli inversi nelle coppie. L’importante è una loro equilibrata compresenza nell’ambiente familiare. L’esistenza di un equilibrio dinamico tra codice paterno e materno è altrettanto essenziale all’interno delle organizzazioni e delle società. Ogni organizzazione, ogni società è una grande famiglia e c’è bisogno di un buon padre (competizione) e di una buona madre (solidarietà).
Settima riflessione: l’approccio sistemico.
Siamo figli dell’approccio analitico, quello proposto da Cartesio secondo cui è opportuno Dividere ognuna delle difficoltà sotto esame nel maggior numero di parti possibile, e per quanto fosse necessario per un’adeguata soluzione. Ma quando le componenti costituenti un fenomeno hanno relazioni non trascurabili tra loro la scomposizione in parti ci fa perdere informazioni sul problema da risolvere. In questo caso dobbiamo passare da un approccio analitico ad uno sistemico che considera le parti e le relazioni di un problema nel loro insieme, in una logica olistica. Per tentare di spiegare la differenza tra approccio analitico e sistemico vi racconterò una storia araba che potremmo intitolare il diciottesimo cammello. E’ la storia di quell’uomo che lasciò ai suoi tre figli diciasette cammelli. Al primo figlio lasciò la metà dei suoi cammelli; al secondo figlio lasciò un terzo dei cammelli; e al figlio più giovane lasciò un nono dei cammelli. Ci sono tre figli e un calcolo da fare. Ma 17 non si divide per 2, né per 3 e nemmeno per 9. L’animo di fratelli cominciò a scaldarsi. Alla fine, disperati, andarono a consulto da una vecchia saggia. La vecchia saggia pensò a lungo al problema, alla fine disse loro: Non so come aiutarvi, ma se volete potete tenere il mio cammello. Così ebbero 18 cammelli. Il primo figlio se ne prese la metà, cioè 9. Il secondo prese il suo terzo, cioè 6. Il figlio più giovane prese il suo nono, cioè 2. In tutto 9+6+2=17. Era rimasto un cammello. Che ritornarono alla vecchia saggia. La storia assomiglia a molte delle difficili situazioni in cui ci troviamo. Esse partono come i 17 cammelli: non c’è soluzione. Ciò che dobbiamo fare è prendere le distanze, come fece la vecchia saggia, e guardare la situazione con occhi nuovi per trovare il diciottesimo cammello. Questo approccio è quello sistemico, che guarda da il problema da lontano, nel suo insieme, appunto.
Ottava riflessione: la leadership.
La leadership è uno dei temi più rilevanti nello sviluppo delle organizzazioni sociali, politiche ed economiche. Lo storico economico Carlo Maria Cipolla nel suo preziosissimo saggio Le leggi fondamentali della stupidità umana ci ha insegnato come la stupidità sia distribuita a tutti i livelli delle organizzazioni. In modo del tutto analogo riteniamo che anche l’intelligenza, come la stupidità, sia distribuita e non concentrata ai vertici delle organizzazioni. Per affrontare le sempre maggiori complessità sociali, politiche, economiche, organizzative c’è la necessità di utilizzare tutta l’intelligenza distribuita. E questo implica una modifica nello stile di leadership. Ma come cambia la leadership passando da un modello tradizionale ad uno avanzato? Risposta: dal ruolo prevalente di conduzione (leggasi pianificazione e controllo) a quello di costruzione del contesto per apprendere e innovare. Sul piano organizzativo si passa da modelli gerarchici a modelli non gerarchici, dall’organizzazione all’auto-organizzazione. Il leader che nel modello tradizionale era un conduttore (di persone) nell’ambito dell’organizzazione, nel modello avanzato diventa un costruttore (di contesto) nell’ambito dell’auto-organizzazione. La resistenza nel passare da modelli gerarchici a modelli non gerarchici è basata sul timore che il potere passi dal centro alla periferia. Ma il potere è come la conoscenza: può essere duplicato. La concettualizzazione del potere come entità a somma non zero è il passo critico per giungere a capire l’essenza dell’empowerment e il management dei sistemi a molte menti. L’empowerment non è abdicazione di potere, né condivisione di potere: è duplicazione di potere. Ogni leader deve fare in modo che ciascun componente del gruppo diventi leader di se stesso o self-leader. Il nuovo ruolo del leader è, come detto, la creazione del contesto. Un contesto dove la vera motivazione è l’auto-motivazione, frutto di una visione condivisa, ottenuta con l’esempio del leader che fornisce l’energia del cambiamento. Quando la complessità aumenta non si può affrontarla centralmente, bisogna decentrare, puntare sulla partecipazione e sull’assunzione di responsabilità da parte di tutti. Serve intelligenza distribuita, inter-conessa, auto-motivata e auto-attivata. Al centro non si risolve. Il futuro è nella periferia: una periferia abitata da self-leader. Come ci ricorda Mario Andretti, storico pilota della Ferrari: Se tutto è sotto controllo, stai andando troppo piano.
Nona riflessione: il potere.
Ci sono molte cose che non funzionano nella vita civile, sociale, economica. E a volte ci sentiamo impotenti nel non poterle cambiare. Eppure cambiare si può, perché anche chi è senza potere può esercitare il potere, anche non ne è consapevole. Il potere dei senza potere è il titolo di un famoso libro di Václav Havel drammaturgo e scrittore cecoslovacco che svolse un’intensa attività politica di dissidenza, culminata con la pubblicazione del manifesto Charta ‘77. Havel sostiene che coloro che apparentemente non hanno alcun potere – i cittadini che vivono nella dittatura – possono in realtà esercitare un potere reale, secondo un percorso che inizia da loro stessi. In una logica di emergenza dal basso e grazie alle interazioni tra i diversi soggetti, il processo si sviluppa su più piani arrivando a costruire una vera e propria auto-organizzazione che si articola in strutture sociali parallele. Il primo livello è quello esistenziale dell’individuo, quella sfera segreta della persona fatta di valori come amore, solidarietà, compassione, tolleranza. A partire da questo sistema di valori l’individuo decide di vivere una vita nella verità in contrapposizione ad una vita nella menzogna. E’ questo un secondo livello, di natura pre-politica, dove la persona si manifesta per i suoi comportamenti, la sua professionalità, la sua testimonianza, il suo coraggio di dire la verità. Eclatante al riguardo è l’esempio riferito da Havel di quel maestro birraio che vuole fare bene la birra, ma quando denuncia che la birra è cattiva perde il posto di lavoro. L’interazione tra i cittadini che hanno deciso di vivere nella verità porta alle prime iniziative di dissenso che si esplicano in movimenti di dissenso, manifestazioni di protesta ecc. E’ un terzo livello squisitamente politico che dimostra come sia possibile una vita indipendente della società. Indipendente da cosa? Indipendente dalla politica. Ovvero una società può ad un certo punto vivere in modo indipendente da un sistema politico che non la rappresenta più, anzi la opprime. Questa vita indipendente della società sfocia prima o poi nella costruzione di vere e proprie polis parallele: sono strutture tipiche di un quarto livello organizzativo-istituzionale come ad esempio l’informazione parallela, il sindacato parallelo, l’istruzione parallela, l’economia parallela. Il potere dei senza potere è la prova provata che i processi di emergenza dal basso esistono, sono potenti e possono portare a strutture auto-organizzate in armonia con il sistema di valori, i comportamenti personali e le azioni collettive. Una grande lezione per tutte le società, le organizzazioni, le imprese.
Decima e ultima riflessione: il futuro.
Ho sempre avuto una grande passione per la fantascienza: per la science fiction. La fantascienza immagina e anticipa il futuro. Il futuro non può essere previsto. Può essere anticipato. Per anticipare il futuro sono necessari approcci avanzati che vadano oltre i tradizionali modelli di previsione basati sulla proiezione in avanti delle esperienze passate. Questi metodi, cosiddetti di anticipazione, costruiscono scenari possibili considerando la molteplicità dei presenti in essere, i segnali deboli, i trend emergenti e percorsi diversi di evoluzione. Solo in questo modo è possibile affrontare la complessità del reale e il suo perenne cambiamento. Il tutto per rispondere ad un cambiamento che è sempre più interconnesso, accelerato, discontinuo. E il futuro corrispondentemente è sempre più imprevedibile, vicino, singolare. Il cambiamento è sempre più interconnesso perché viviamo in sistemi sempre più interdipendenti. I presenti vissuti sono molteplici; ciascuno di noi appartiene simultaneamente a diversi reti culturali, sociali ed economiche. Viviamo molti presenti che si intersecano tra di loro a livello individuale e di gruppo, sul piano economico e sociale. Dei molteplici presenti non riusciamo a capire quale di questi prevarrà sugli altri. Per questo motivo il futuro è sempre più imprevedibile. Inoltre l’accelerazione del cambiamento è diventata così elevata che oggi non riusciamo a dare tutte le risposte in tempo utile. Viviamo in tempi esponenziali e ciò comporta un futuro sempre più vicino. Infine il vivere in ambienti con risposte sempre più amplificate (si pensi alle conseguenze che oggi una crisi finanziaria di un paese provoca sull’intero sistema) rende il presente sempre più instabile, soggetto a grandi cambiamenti generati da piccole cause, nella logica dell’effetto farfalla. La discontinuità del cambiamento annuncia un futuro singolare. Per quanto riguarda i segnali deboli, essi sono fondamentali da cogliere perché il futuro arriva come un gatto. Il gatto, come tutti i felini, si avvicina a passi felpati. I rumori sono lievi: sono i cosiddetti segnali deboli. Poi i segnali addirittura cessano: è il momento dell’agguato. Infine c’è il balzo finale e il futuro ci arriva addosso senza nemmeno che ce ne accorgiamo. Ogni adulto sa che un mago non può produrre un coniglio senza che esso non sia già nascosto nel suo cappello; allo stesso modo, le sorprese quasi mai emergono senza un segnale d’allerta. Tali segnali di allerta sono i segnali deboli. Essi sono deboli nel senso di difficili da individuare, ma non nel loro impatto potenziale che può essere molto rilevante. Come il coniglio di un mago è già nel cilindro prima che noi lo vediamo, così il futuro è già qui anche se non lo vediamo ancora in modo chiaro. Dobbiamo infine sapere interpretare i megatrend. Il mondo cambia come i disegni in un caleidoscopio: le tendenze si espandono, si contraggono, si disgregano, si fondono, si disintegrano e svaniscono, mentre altre si formano. Nulla resta costante. I trend più importanti non conoscono confine e condizionano ogni aspetto della società: hanno il potenziale di cambiare profondamente il modo in cui il mondo funzionerà domani, e possono impattare più velocemente di quanto si possa pensare. Concludo ricordandovi che la sfida odierna è quella di essere alla Charles Snow: Uomini che hanno il futuro nel sangue. Non a caso il futuro appartiene a chi sa immaginarlo.

*Direttore scientifico CUOA Business School